NOME DI DONNA
Giovedì 15 marzo
20:45
Venerdì 16 marzo
16:30
Sabato 17 marzo
18:50
Domenica 18 marzo
17:00
21:30
Mercoledì 21 marzo
18:30

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Nina (Cristiana Capotondi) si trasferisce da Milano in un piccolo paese della Lombardia, dove trova lavoro in una residenza per anziani facoltosi. Un mondo elegante, quasi fiabesco. Che cela però un segreto scomodo e torbido. Quando Nina lo scoprirà, sarà costretta a misurarsi con le sue colleghe, italiane e straniere, per affrontare il dirigente della struttura, Marco Maria Torri (Valerio Binasco) in un’appassionata battaglia per far valere i suoi diritti e la sua dignità.

Note di produzione
Lumiére&Co. ha deciso senza esitazioni di produrre Nome di Donna in tempi in cui il tema delle molestie sessuali sui luoghi di lavoro era tabù e nella consapevolezza di un argomento difficile.
Crediamo – e ancora di più l’abbiamo imparato in questi mesi – che sia fondamentale su alcune tematiche sociali aumentare il nostro livello di sensibilità culturale, e che il cinema possa e debba rappresentare un grande contributo a questo scopo. Anche quando questo rappresenta una scelta imprenditoriale ardua e – all’apparenza – in controtendenza rispetto ai gusti di un pubblico portato verso linguaggi e contenuti di più facile fruizione.
Lumiére&Co. è grata a Rai Cinema per aver creduto in questo film che oggi più che mai è nel solco dei tempi e con cui speriamo di poter apportare il nostro piccolo contributo. (Lionello Cerri)

DURATA   1:30′
GENERE   Drammatico

Un esercito anonimo di milioni di donne che non deve più essere invisibile

Nome di donna è nato tre anni fa dal desiderio di guardare alla condizione femminile nel mondo del lavoro, escludendo le discriminazioni più macroscopiche – come la disparità salariale – per studiare invece quelle più sottili – e dunque subdole – assunte come una sorta di (sotto)cultura diffusa. Quel senso comune, quell’ovvietà, capace di insinuarsi nel quotidiano, di diventare parte integrante del modo di vivere e di lavorare, di rapportarsi agli altri.

Credo che ogni donna possa comprendere esattamente queste parole, e – per fortuna – anche molti uomini.

Mi sembrava importante uscire dai massimi sistemi, dalle ideologie, dai ragionamenti teorici, ed entrare invece nella vita di tutti i giorni, nelle storie di una quotidianità femminile straordinariamente complessa, figlia di questo tempo in cui la fragilità economica e la precarietà del lavoro hanno inevitabilmente alzato il livello del bisogno e abbassato quello delle pretese. O meglio: dei diritti.

Un’indagine Istat svolta nel 2008/2009 ha accertato che in Italia circa la metà delle donne, in un arco di vita compreso fra i 14 e i 65 anni, ha subito ricatti sessuali sul lavoro o molestie in senso lato. In numeri: 10 milioni e 485mila donne.

Al di là della freddezza delle statistiche, è stato come vedere e sentire un esercito immenso – e tuttavia anonimo e silenzioso – sostenere un giorno dopo l’altro, un anno dopo l’altro, di decennio in decennio, una battaglia che non avrebbe dovuto essere combattuta, che non dovrebbe essere combattuta ancora adesso solo perché si è donne. In nome del diritto al lavoro e in difesa della propria dignità.

Un’altra suggestione è stata dettata da un fatto realmente accaduto negli anni Novanta quando in Italia si accese il dibattito che poi portò – nel 1996, solo vent’anni fa! – a considerare lo stupro reato contro la persona e non più reato contro la morale. Una normativa in cui fu inserito anche il tema delle molestie sessuali, ma con un difetto importante, che sarebbe bene rimediare al più presto: chi decide di denunciare ha soltanto 6 mesi di tempo per farlo.

Il rapporto Istat evidenzia che, nonostante la legge abbia più di vent’anni, le molestie sessuali sui luoghi di lavoro restano un fenomeno di proporzioni enormi, a fronte del quale solo una sparuta minoranza sceglie di reagire. I fatti degli ultimi mesi hanno dimostrato quanto sia difficile – difficilissimo – uscire dal silenzio ed esporsi al giudizio del senso comune e quanto sia difficile affidarsi a una società che culturalmente deve ancora fissare i suoi punti di riferimento.

Con Nome di donna, ho cercato di dare vita a un personaggio che potesse uscire da quell’esercito relegato nel limbo del silenzio e di raccontare una storia che restituisse almeno in parte la complessità e il dolore rappresentato dalla molestia anche quando si agisce la volontà di affrontarla anziché subirla. La volontà di non sottostare all’abuso di potere. Di non accettare il ruolo di vittima predestinata. Di ribellarsi.

Ho cercato di rappresentare diversi gradi di sensibilità femminile, ognuna incarnata in un personaggio con modi diversi di affrontare – o rimuovere – il problema, consapevole che la percezione di questo tipo di abuso dipende da molti fattori che concorrono a formare una personale soglia di tolleranza. Ho cercato di evitare il metro del giudizio per percorrere la strada della comprensione, mi sono tenuta vicina ogni donna, anche quelle più integrate nel sistema che subiscono, e proprio per questa ragione le più deboli. Ho cercato con loro una condivisione.

Scrivendo di Nina, non ho potuto fare a meno di chiedermi che cosa avrei fatto al suo posto, già sapendo che non avrei avuto lo stesso coraggio, soprattutto la stessa capacità di sopportare la solitudine – l’isolamento – a cui condanna la decisone di ribellarsi.

Mi auguro che questa storia, pur non tacendo del prezzo alto che comporta ogni ammutinamento alle cattive regole, possa alimentare la speranza che le cose non restino così per sempre.

Cristiana Mainardi (soggetto e sceneggiatura)

Cristiana Mainardi diventa giornalista professionista dal ’92, un’attività scelta per il forte interesse nella possibilità di conoscere e interpretare la contemporaneità e le vicende umane, oltre che per una profonda passione per il racconto.
Contemporaneamente all’attività giornalistica si occupa di organizzazione di eventi culturali prevalentemente in ambito letterario, e di comunicazione artistica.E’ ideatrice e produttrice di Fuoricinema, l’evento cinematografico all’aperto e gratuito che ha contato nel 2017 più di 25.000 presenze.
Su questa strada inizia un nuovo percorso professionale con Zelanda, società nata per occuparsi dell’avvento digitale di Zelig e Smemoranda, e successivamente – a cavallo della rivoluzione digitale del cinema – di Visionaria, formata con la casa di produzione Lumière & Co, che oggi detiene il marchio e per cui sono stati ideati diversi format tra cui l’innovativo Al cinema con i maestri, prodotto con il sostegno del Miur.
Per Lumière & Co. Cristiana Mainardi è direttore creativo e responsabile dello sviluppo. Prima di Nome di donna l’ultimo lavoro scritto è stato il soggetto del documentario Milano 2015 per la regia di Silvio Soldini, Giorgio Diritti, Walter Veltroni, Cristiana Capotondi, Elio di Elio e le Storie Tese, Roberto Bolle e selezionato alle Giornate degli autori della 72esima mostra internazionale di Venezia.
L’ultimo lavoro in produzione è stato il film di Silvio Soldini, Il colore nascosto delle cose.